IL GIUDICE ISTRUTTORE
   Nel  procedimento  iscritto  al  n. 47760 del ruolo generale affari
 contenziosi dell'anno 1996 fra le parti:
   Comitato organizzatore Giochi del Mediterraneo domiciliato in Roma,
 via F. Carrara n.  24,  presso  l'avv.  Vincenzo  Sinisi;  attore  in
 opposizione, contro Augusto Frasca domiciliato in Roma, via Prisciano
 n.  67  presso  l'avv.  Piero  Ponzelletti; convenuto in opposizione,
 avente ad oggetto:  opposizione a decreto ingiuntivo di pagamento. Ha
 pronunciato la seguente ordinanza sulla dichiarazione di chiamata  in
 causa del terzo e contestuale istanza di differimento dell'udienza di
 prima  comparizione  proposta  dal  convenuto sig. Augusto Frasca con
 comparsa di costituzione depositata il giorno 12 febbraio 1997.
   Il  sig.  Augusto  Frasca  -  convenuto  in  giudizio  dal Comitato
 organizzatore  Giochi  del  Mediterraneo  con   atto   di   citazione
 notificato  il  giorno  26  novembre  1996  in opposizione al decreto
 ingiuntivo n. 4578 emesso dal presidente del  tribunale  di  Roma  il
 giorno  24  settembre  1996  -  ha dichiarato, ai sensi dell'art. 269
 c.p.c., di voler chiamare in giudizio  i  sig.ri  Antonio  Matarrese,
 Michele  Barbone,  Vito  Chiarelli  e  Michele  Bonante,  promotori e
 componenti del Comitato,  preannunciando  la  proposizione  nei  loro
 confronti  di domanda di condanna di L. 165.800.000 oltre interessi e
 rivalutazione monetaria. Sulla contestuale  istanza  di  differimento
 della  prima  udienza gia' fissata per il giorno 5 marzo 1997, appare
 rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita'
 costituzionale dell'art. 271 c.p.c., sulla  costituzione  del  terzo,
 nella  parte in cui non richiama le disposizioni dell'art.  167 comma
 2 c.p.c.
                   Sulla non manifesta infondatezza
   Preliminarmente  deve  essere  osservato   che   nei   giudizi   di
 opposizione  a  decreto  ingiuntivo  la  disciplina  applicabile alle
 posizioni di attore e convenuto va  individuata  facendo  riferimento
 alla  veste c.d. processuale che rispettivamente assumono l'opponente
 e l'intimante.  Discende tale conclusione dalla constatazione  che  i
 termini fissati a pena di decadenza per il compimento delle attivita'
 riguardanti  la  delimitazione  del  thema  decidendum  e  del  thema
 probandum sono concepiti secondo un  ordine  conseguenziale  ancorato
 alla  costituzione  del  convenuto  -  inteso come destinatario della
 vocatio in ius (e  quindi  come  soggetto  effettivamente  vocato  in
 giudizio  e  non  solo  pro-vocato  -, sicche' ove si invertissero le
 posizioni connesse a tale punto di  ancoraggio  (ritenendo  convenuto
 non  il  destinatario  ma  l'autore  della vocatio), l'intero sistema
 delle preclusioni risulterebbe scompaginato,  e  il  principio  della
 conseguenzialita'    dialettica,   cui   lo   stesso   e'   ispirato,
 inevitabilmente violato. Riprova  di  cio'  e'  che  l'intepretazione
 opposta  condurrebbe  a  riconoscere  all'intimante  la  facolta'  di
 proporre sino alla prima udienza di trattazione - e quindi ben  oltre
 il termine per la sua costituzione in giudizio - le eventuali domande
 riconvenzionali ulteriori, nonche' di chiamare in causa il terzo sino
 a  tale  momento  (sia  pure  previa autorizzazione del giudice), con
 ingiustificato vantaggio  rispetto  alla  controparte  e  alterazione
 dell'intero meccanismo processuale introdotto con la novella.
   Fatta  tale premessa va in primo luogo esaminata la possibilita' di
 interpretare il mancato richiamo  alla  disposizione  dell'art.  167,
 comma  2,  nel  senso  di  escludere  senz'altro il diritto del terzo
 chiamato in giudizio, di proporre domande riconvenzionali.
   A tale interpretazione si oppongono le seguenti considerazioni:
   a) In primo luogo la constatazione che la disposizione del comma  2
 dell'art.  167  c.p.c.  non  attribuisce  poteri  processuali  ma  ne
 disciplina l'esercizio. In essa  non  e'  infatti  stabilito  che  il
 convenuto  puo' proporre le eventuali domande riconvenzionali, ma che
 a pena di decadenza deve proporle nella comparsa di costituzione, con
 espressione quindi dalla quale si ricava che il potere di chiamare in
 giudizio il terzo pre-esiste  alla  previsione  normativa  in  esame,
 dalla  quale  non  e' quindi attribuito ma solo disciplinato mediante
 l'indicazione delle modalita' attraverso la quale va  esercitato.  Di
 qui l'impossibilita' di ricavare dall'omesso richiamo a tale norma la
 mancata attribuzione del potere processuale che vi e' disciplinato.
   b)  In secondo luogo - a conferma della conclusione precedente - il
 ruolo essenziale che il potere di  proporre  domande  riconvenzionali
 assume  per  l'esercizio  del  diritto  di difesa. A tal riguardo, va
 rilevato che in talune fattispecie, quali quelle in cui il  convenuto
 intenda  far valere ragioni di risoluzione contrattuale per eccessiva
 onerosita'  sopravvenuta,  la  proposizione  di  una  mera  eccezione
 riconvenzionale  di  risoluzione  non e' sufficiente a paralizzare la
 domanda,  avendo   il   convenuto   l'onere   di   proporre   domanda
 riconvenzionale  (Cass.  3321/87).    Conclusione che rende palese il
 legame  essenziale  esistente  fra  il  potere  di  proporre  domande
 riconvenzionali  e  il  diritto  di difesa, e la necessita' quindi di
 considerare  il  primo  (al  pari  del  secondo)  indipendente  dalla
 disposizione  del comma 2 dell'art. 167 c.p.c.  e insito nello stesso
 sistema processuale.
   c) In terzo luogo l'evidente contraddittorieta' di  una  disciplina
 che,  pur  consentendo  al  terzo  ex  art. 271 c.p.c. di chiamare in
 giudizio altri soggetti e di  proporre  quindi  nuove  domande  verso
 costoro, non gli consentisse di proporre nuove domande verso soggetti
 che gia' rivestano posizione di parte processuale.
   Accantonata  percio'  la  possibilita'  di  interpretare il mancato
 richiamo al comma 2 dell'art. 167 c.p.c. nel senso  di  escludere  il
 diritto  del  terzo  di proporre domande riconvenzionali va esaminata
 l'interpretazione opposta,  secondo  cui  il  mancato  richiamo  alle
 disposizioni    dell'art.    167   comma   2   c.p.c.,   determinando
 l'inapplicabilita' dell'art.  171 c.p.c. comma 2, che alla prima fa a
 sua volta rinvio,  comporterebbe  unicamente  l'inesistenza,  per  il
 terzo  che  agisca  in via riconvenzionale, delle preclusioni e delle
 ulteriori  disposizioni  previste  da   tale   norma.   Trattasi   di
 interpretazione  che,  al  pari  della  prima, determina posizioni di
 evidente squilibrio fra le posizioni processuali delle  parti  e  che
 tuttavia  non  e' superabile ne' per via di applicazione analogica di
 norme  fondate  sull'eadem   ratio   ne'   mediante   altra   ipotesi
 interpretativa.
   Preliminarmente  va  precisato  che  la disciplina che si ricava da
 tale intepretazione, se  da  un  lato  impedisce  che  il  terzo  sia
 sottoposto al regime delle decadenze previsto per la costituzione del
 convenuto,  dall'altro  non  esclude  l'applicabilita' a tali domande
 delle  nullita'  previste  per  il  caso   di   assoluta   incertezza
 dell'oggetto e del titolo della domanda; vi osta la constatazione che
 alla  domanda  del terzo vanno comunque applicate quelle disposizioni
 dettate  per  l'atto  di  citazione  che  sono  essenziali   per   la
 proposizione  di qualunque domanda giudiziale e in cui sono contenute
 quindi  norme  generali  -  quali  quelle  sull'assoluta   incertezza
 dell'oggetto  e  del titolo - necessariamente applicabili a qualunque
 domanda; soluzione che non puo' invece essere percorsa per il mancato
 richiamo alle decadenze previste per la  proposizione  delle  domande
 riconvenzionali,   stante   il   carattere  non  essenziale  di  tali
 previsioni, e atteso che la disciplina generale da richiamare sarebbe
 contenuta - in ipotesi - nella stessa disposizione (art.  167,  comma
 2,  c.p.a.)  di  cui  si  discute  e  il  cui  il  richiamo e' invece
 esplicitamente omesso.
   Cio'  posto va rilevato che il mancato richiamo alla norma in esame
 contrasta con la disciplina delle forme di tali  domande,  disciplina
 che  prevede,  all'art.  269  c.p.c., l'utilizzazione dello strumento
 dell'atto di citazione, fra i cui elementi  essenziali,  richiesti  a
 pena  di nullita', va oggi ricompreso l'avvertimento ex art. 163 n. 7
 c.p.c. sulle decadenze conseguenti alla costituzione oltre i venti (o
 dieci) giorni anteriori l'udienza di companzione. Di qui un'antinomia
 che non puo' tuttavia  essere  risolta,  in  maniera  rispettosa  dei
 principi  costituzionali,  attraverso  l'applicazione analogica della
 disposizione dell'art. 167, comma  2  o  l'interpretazione  estensiva
 della stessa, atteso che tali soluzioni sarebbero consentite soltanto
 ove l'articolo, non contenendo alcun espresso richiamo ad altre parti
 dell'art.  167,  c.p.c.  - segnatamente alla disposizione del comma 1
 dell'art. 167 c.p.c.  -  non  denotasse,  per  evidente  deduzione  a
 contrario,  l'esistenza  di  una voluntas legis tesa espressamente ad
 escludere l'applicabilita' alla chiamata del terzo delle disposizioni
 del  comma  2.  In  altre  parole  il  carattere  esplicito  di  tale
 limitazione   -  con  la  conseguente  esclusione  del  regime  delle
 decadenze previsto per la costituzione del convenuto -  impedisce  di
 attribuire  carattere  prevalente  al  riferimento  solo implicito al
 regime delle medesime decadenze ricavabile dalla previsione,  per  la
 chiamata  del  terzo,  dello  strumento dell'atto di citazione, e con
 esso dell'avvertimento ex art. 163 n. 7  c.p.c.  che  ne  costituisce
 elemento  essenziale.  E  cio' alla luce del criterio ermeunitico che
 impone di interpretare le locuzioni contenute nei testi normativi  in
 modo  che  in  ciascuna di esse sia riconoscibile una qualche valenza
 normativa, escludendo le interpretazioni che condurrebbero a privarle
 di qualunque valore o significato giuridico. Principio che, impedendo
 di escludere dal testo  dell'art.  271  c.p.c.  la  locuzione  "primo
 comma"   riferita  all'art.     167  c.p.p.  e  impedendo  quindi  di
 considerare  richiamato  l'intero  articolo  del  codice  (cosa   che
 avverrebbe   ove  la  proposizione  fosse  limitata  alla  frase  "si
 applicano le disposizioni dell'art. 167 c.p.c.")  porta  a  delineare
 una  disciplina  speciale  e  completa, ostativa, in quanto tale, sia
 dell'applicazione analogica di norme fondate su eadem ratio -  stante
 l'assenza  di  lacune  normative - sia dell'interpretazione estensiva
 delle disposizioni generali dell'art. 167, stante  la  gia'  rilevata
 specialita' e completezza della norma dell'art. 271 c.p.c.
   Discende  da  tali  conclusioni  l'impossibilita'  inoltre  di  far
 ricorso ad un'interpretazione addititiva della disposizione dell'art.
 271 c.p.c. fondata sul criterio  storico.  L'ipotesi  di  un'evidente
 svista  legislativa  e'  in  realta'  suffragata, come evidenziato da
 autorevole dottrina,  dalla  circostanza  che  nell'unico  passo  dei
 lavori  preparatori  riguardante  la  questione  si legge: (seduta 29
 novembre 1989 della seconda commissione del Senato) "questo  articolo
 tratta  della  costituzione del terzo chiamato in causa, per il quale
 si applicano le disposizioni degli artt. 166 e 167  primo  e  secondo
 comma  del  codice  di procedura civile", onde l'ipotesi di un vero e
 proprio  lapsus  calami  nella  redazione  del  testo  finale  appare
 evidente.  Ciononostante  l'univocita'  del  dato  testuale risultato
 dalla stesura definitiva della disposizione non consente  al  giudice
 di  seguire soluzioni di tipo additivo in quanto queste assumerebbero
 carattere non  meramente  interpetativo  ma  di  vera  rettificazione
 dell'errore  legislativo.  Procedimento  evidentemente non rientrante
 fra i poteri degli organi giurisdizionali.
   Di  qui la necessita' per l'interprete, impossibilitato a ricorrere
 a siffatti strumenti, di porsi le seguenti questioni:
     se la mancata previsione per il terzo chiamato in giudizio di  un
 sistema  di  preclusioni  speculare  a  quello  connesso alla tardiva
 costituzione del convenuto introduca una  rilevante  differenziazione
 nel diritto di difesa delle parti;
     se  tale differenziazione sia o meno fondata su una diversita' di
 fattispecie idonea a legittimare in relazione agli artt. 3 e 24 della
 Costituzione la ipotizzata diversita' di disciplina.
   Partendo dal secondo quesito pare al g.i. che la circostanza che  i
 terzi  siano  chiamati  a  partecipare  al  giudizio  in  un  momento
 successivo a quello in cui le parti originarie  hanno  dato  vita  al
 rapporto  processuale  non comporti differenze sostanziali fra le due
 posizioni. Ai terzi va infatti riconosciuta la medesima posizione  di
 parte  processuale  spettante agli originari soggetti privati, e cio'
 non solo nel caso in esame, in cui e'  preannuciata  la  proposizione
 nei  loro  confronti  di  una  domanda di condanna, ma per ogni altra
 ipotesi di chiamata in giudizio, ove si  considerino  le  riflessioni
 espresse  dalla migliore dottrina in ordine al fatto che la posizione
 di parte vada comunque disgiunta dalla titolarita' attiva  o  passiva
 dei  rapporti  scaturiti  da  specifiche  domande giudiziali, ovvero,
 secondo altra prospettazione, che, anche nel caso della mera denuncia
 di lite, nei  confronti  del  chiamato  sia  sempre  ravvisabile  una
 domanda  di accertamento. Di qui l'impossibilita' di ravvisare, nelle
 fattispecie  messe  a  confronto,  differenze  sostanziali  idonee  a
 legittimare discipline differenziate.
   Detto  questo  pare al g.i. che il contesto unitario entro il quale
 vanno considerati i precetti degli artt. 24, commi primo e secondo  e
 dell'art.  3  della  Carta  costituzionale, imponendo che ad identica
 fattispecie processuale corrisponda  identita'  di  diritti  e  oneri
 processuali,  comporta  che il contradditorio fra le parti originarie
 ed il terzo chiamato sia  assicurato  in  posizione  di  uguaglianza;
 situazione  che non si verificherebbe nel caso in cui il regime delle
 decadenze previsto per taluna delle parti  fosse  diverso  da  quello
 previsto per le altre.
   Nello   schema  generale  del  nuovo  processo  civile  le  domande
 riconvenzionali e le eccezioni delle parti sono  soggette  infatti  a
 termini  di  preclusione  anteriori l'udienza cui alle controparti e'
 consentito svolgere la propria conseguenziale attivita' difensiva;  e
 cio'   sia   per  l'attivita'  riguardante  le  questioni  rilevabili
 d'ufficio, sia per quella volta all'ampliamento del thema  decidendum
 mediante  le  eccezioni in senso stretto o le domande riconvenzionali
 che  fossero  conseguenziali  alla  prima   modificazione.   A   tale
 disciplina  e'  evidentemente  sottesa  la  ratio  di  attribuire  ai
 destinatari della nuova domanda o eccezione un  congruo  termine  per
 l'approntamento  delle proprie eccezioni e controdomande, termine che
 nella visione del legislatore assume  pertanto  carattere  essenziale
 nella  connotazione  del  diritto di difesa di ciascuna parte. Orbene
 dalla  considerazione   sull'essenzialita'   di   siffatto   elemento
 nell'esercizio  del  diritto  di difesa discende la conseguenza che i
 principi degli artt. 3 e 24 della Costituzione  sarebbero  violati  a
 danno  delle  originarie  parti  processuali  ove analogo termine non
 fosse a queste riconosciuto rispetto alle domande riconvenzionali dei
 terzi chiamati, cui sarebbe consentito in tal modo  mutare  il  thema
 decidendum   nella   stessa   udienza  in  cui  fossero  tardivamente
 costituiti. Lo squilibrio di posizioni processuali che ne deriverebbe
 sarebbe infatti lesivo delle ragioni  difensive  del  convenuto,  nei
 casi  di  chiamata  da  parte  di  questo,  e dell'attore nei casi di
 chiamata autorizzata su sua istanza.
   Nel primo caso - riguardante la fattispecie oggetto della  presente
 ordinanza  -  al  convenuto  non  sarebbe  consentito partecipare, in
 consapevole   posizione   dialettica,   all'attivita'   volta    alla
 rilevazione   delle   questioni   sollevabili   d'ufficio   (verifica
 dell'integrita' del contraddittorio e dei poteri rappresentivi  delle
 parti,  rilievi sulle nullita' riguardanti la domanda riconvenzionale
 del terzo ex artt.  167  comma  2,  seconda  e  terza  proposizione);
 attivita'  normalmente  svolte  nell'udienza  prevista  dall'art. 180
 c.p.c.,  e  non  meno  importante,  ai  fini  difensivi,  di   quella
 riguardante   le   eccezioni   in   senso   stretto   e   le  domande
 riconvenzionali, ben potendo il giudizio essere definito  sulla  base
 di  questioni  rilevate d'ufficio su segnalazione di parte, ed avendo
 quindi il legislatore proprio per tale ragione conservato, nonostante
 la scissione dell'udienza di prima comparizione dalla  prima  udienza
 di  trattazione,  il  termine di costituzione del convenuto nel venti
 giorni anteriori l'udienza fissata ex art. 180 c.p.c. Detto questo va
 precisato che se e' vero  che  la  posizione  del  chiamante  non  si
 presenta  diversa,  in  tal  caso,  da  quella  del convenuto nei cui
 confronti l'attore abbia  proposto  la  propria  riconvenzionale,  la
 diversita'  delle situazioni in cui si trovano i due diversi rapporti
 processuali non giustifica l'identita' di disciplina.  Nelle  ipotesi
 di  riconvenzionale  proposta  dall'attore  l'eccezione  al  generale
 principio del termine di difesa e' invero spiegata dal fatto  che  il
 convenuto, avendo gia' avuto la possibilita', in due diversi momenti,
 di  apportare  modificazioni  al thema originariamente proposto dalla
 controparte (termine di costituzione e termine ex art. 180 c.p.c. per
 le "eccezioni non rilevabili d'ufficio"), si trova  in  posizione  di
 sufficiente  padronanza  della materia, tale, comunque, da attribuire
 all'eventuale ulteriore differimento dell'udienza il carattere di  un
 eccesso  di  garanzia,  non  ravvisabile  invece  nei rapporti con il
 chiamato,   ove   quest'ultimo   fosse   assoggettato   all'onere   -
 indispensabile  in  tale  ipotesi  -  della  normale  deduzione della
 propria contro-domanda nei venti giorni precedenti l'udienza; e  cio'
 in  quanto  il rapporto processuale fra tali soggetti si trova ancora
 nelle sue fasi iniziali. Di qui l'impossibilita' di  ravvisare  nella
 disciplina  della  riconvenzionale  dell'attore un'identita' di ratio
 idonea a  spiegare  la  identita'  di  posizione  del  convenuto  nei
 riguardi della riconvenzionale del chiamato.
   Nel  caso  di  chiamata  ad  istanza  dell'attore la violazione del
 diritto di difesa sarebbe  poi,  ancora  piu'  grave,  in  quanto  il
 meccanismo  previsto  dall'art.  269  c.p.c.  commi  terzo  e quinto,
 sottintendendo che la nuova udienza fissata dal g.i. sia gia'  quella
 destinata,   nei  rapporti  con  il  terzo,  alla  trattazione  delle
 questioni previste  all'art.  183  c.p.c.,  fa  si'  che  il  mancato
 richiamo  al  comma  2  dell'art.    167 c.p.c., consenta al terzo di
 proporre le proprie domande riconvenzionali  nella  medesima  udienza
 (ex art. 183 c.p.c.) in cui la controparte sarebbe tenuta, non solo a
 sollevare   le   questioni,   rilevabili  anche  d'ufficio,  deputate
 all'udienza ex art. 180 c.p.c., ma anche a proporre  le  eccezioni  e
 domande   riconvenzionali   conseguenziali  alle  difese  del  terzo,
 privandola, quindi, di qualunque termine  per  l'approntamento  della
 normale  difesa.  Recita infatti l'art. 269 c.p.c., che restano ferme
 per le  parti  le  preclusioni  ricollegate  alla  prima  udienza  di
 trattazione  mentre  il  termine  eventuale  di  cui all'uItimo comma
 dell'art. 183 c.p.c. e' fissato dal giudice  istruttore  nell'udienza
 di  comparizione  del  terzo;  termine  che  va  utilizzato  tuttavia
 unicamente  per  le  precisazioni  o  modificazioni  delle   domande,
 eccezioni  e  conclusioni  gia'  proposte, non anche per le domande o
 eccezioni, conseguenziali alle domande riconvenzionali del  chiamato,
 che  dovessero  ancora  essere proposte, le quali andrebbero pertanto
 immediatamente   dedotte   nella   medesima   udienza   in   cui   le
 riconvenzionali del terzo venissero proposte.
   Di  qui  la  conclusione  che  la posizione processuale delle parti
 costituite  e'  nell'attuale  formulazione   dell'art.   271   c.p.c.
 sfavorevolmente   squilibrata   a   vantaggio   del  terzo  chiamato,
 squilibrio che ad avviso del g.i., rende non manifestamente infondata
 la questione di legittimita' costituzionale della norma dell'art. 271
 c.p.c., in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione nella parte
 in cui non richiama la disposizione dell'art. 167, comma 2, c.p.c.
                            Sulla rilevanza
   Va  a  questo  punto  valutata  la   rilevanza   della   sospettata
 illegittimita'  della norma nel presente giudizio in cui il terzo non
 ha ancora proposto alcuna domanda riconvenziale.
   Il carattere ipotetico  di  questa,  e  della  sua  tardivita',  fa
 apparire, infatti, a prima vista, altrettanto ipotetica la violazione
 dei  richiamati  principi costituzionali e irrilevante, quindi, nella
 presente  situazione  processuale,  la   prospettata   questione   di
 costituzionalita'.
   Contrariamente  all'apparenza  tuttavia sembra a questo g.i. che la
 possibile efficacia, nel giudizio in corso,  dell'eventuale  sentenza
 di   illegittimita'  pronunciata  dalla  Corte,  renda  la  questione
 medesima rilevante solo nella presente situazione processuale.
   La  nuova   normativa   sarebbe   infatti   suscettibile   di   due
 interpretazioni,   entrambe   convergenti   nel   senso  dell'attuale
 rilevanza della questione.
   Ove infatti si  ritenesse  che  il  principio  tempus  regit  actum
 impedisca l'applicazione indiretta della nuova disciplina al rapporto
 processuale    gia'    costituitosi   per   effetto   della   domanda
 riconvenzionale tardivamente proposta dal terzo, la domanda medesima,
 essendo comunque retta dalla precedente disciplina, andrebbe comunque
 ritenuta  ammissibile  nel  processo  in   corso,   con   conseguente
 inevitabile  violazione dei principi costituzionali sopra richiamati,
 e inutilita' quindi (e irrilevanza) della questione,  sollevata  dopo
 l'effettiva (e tardiva) proposizione della domanda.
   Ove invece si ritenesse che la normativa risultante dalla pronuncia
 della Corte sia suscettibile di applicazione indiretta, nelle fasi di
 controllo  dell'attivita'  precedentemente  compiuta,  il  diritto di
 difesa  risulterebbe  inevitabilmente  violato  a  danno  del  terzo,
 poiche' la posizione di questi, irrimediabilmente decaduto dal potere
 di   proporre   le  domande  riconvenzionali  che,  alla  luce  della
 precedente normativa, aveva legittimamente  introdotto,  risulterebbe
 evidentemente  squilibrata a vantaggio del chiamante, sicche' sarebbe
 proprio  l'effetto   della   pronuncia   di   incostituzionalita'   a
 determinare  -  sia  pure in direzione contraria - una violazione del
 diritto di difesa.
   Di  qui  la  necessita'  di  far  riferimento  nel  giudizio  sulla
 rilevanza  del  quesito  ad  una  nozione  che  tenga  conto non solo
 dell'attualita' delle questioni  oggetto  del  giudizio  direttamente
 pregiudicato  ma anche dell'attualita' delle posizioni processuali il
 cui esercizio possa comportare l'inevitabile  violazione  di  diritti
 costituzionalmente  garantiti.  Inevitabilita'  che,  stante  la  sua
 attuale proiezione sul giudizio definitivo (ancorche'  futuro)  rende
 in tal modo attuale anche la rilevanza della questione su di esso.
   In  base  a  tale  criterio,  poiche' per effetto della chiamata in
 giudizio e della posizione  di  parte  conseguentemente  assunta  dal
 terzo,  quest'ultimo e' gia' investito del potere di proporre domande
 riconvenzionali secondo modalita' che, per le ragioni sopra  esposte,
 appaiono  in  contrasto  con  i richiamati principi costituzionali, e
 poiche' alla violazione del diritto di difesa non  potrebbe  ovviarsi
 nel  presente  procedimento  mediante la pronuncia della Corte ove la
 relativa  questione  venisse  proposta  soltanto   dopo   l'effettiva
 proposizione   della   domanda   riconvenzionale  (secondo  modalita'
 reputate incostituzionali), la questione di legittimita' della norma,
 non essendo piu' rilevante in tale ultimo  caso,  e'  necessariamante
 rilevante   invece   nel  momento  attuale,  anteriore  all'effettivo
 esercizio del potere sospettato di incostituzionalita', e  posteriore
 all'atto  (chiamata  in  giudizio)  produttivo del potere processuale
 disciplinato dalla norma sospettata di incostituzionalita'.
   Si ricava da tale nozione di  attualita',  intesa  come  attualita'
 della   proiezione   della   questione  costituzionale  sulla  futura
 decisione  della  controversia  che  e'   solo   al   momento   della
 realizzazione della situazione processuale suscettibile di comportare
 la   violazione  del  principio  costituzionale  che  si  produce  la
 rilevanza della questione; non prima,  non  essendo  attuale  la  sua
 futura  proiezione sulla definizione del giudizio, non dopo, a potere
 gia' esercitato, essendo in tale momento  divenuta  inutile,  per  il
 giudizio in corso, l'eventuale pronuncia di incostituzionalita'.
   Diversamente,  sarebbero  le stesse norme disciplinanti il giudizio
 di legittimita' costituzionale a determinare, nel giudizio in  corso,
 la  violazione  del  diritto  di  difesa, atteso che, come si e' gia'
 detto, anche nel caso  in  cui  si  ritenesse  che  la  pronuncia  di
 illegittimita'   costituzionale  fosse  applicabile  alle  situazioni
 pregresse, la posizione di una delle parti (in tal  caso  quella  del
 terzo  che  avesse  gia'  tardivamente  proposto  la  propria domanda
 risulterebbe inevitabilmente squilibrata a vantaggio dell'altra.
   Di qui il primo  e  piu'  importante  profilo  di  rilevanza  della
 questione di costituzionalita'.
   Ad   esso,   all'attualita'   cioe'  della  situazione  processuale
 suscettibile   di   proiettarsi   sul   giudizio   definitivo,   sono
 riconducibili  due  aspetti  ulteriori  riguardanti  le attivita' del
 chiamante e del giudice
   Il primo consiste nel fatto che la definizione della  questione  di
 costituzionalita',  nell'uno o nell'altro senso, incide sul contenuto
 essenziale dell'atto di  citazione  che  il  chiamante  e'  tenuto  a
 redigere  e  notificare,  stante  l'irrilevanza  nell'attuale sistema
 processuale dell'emissione dell'avviso ex art.  163  c.p.c.  n.  7  e
 l'essenzialita'     dello    stesso    in    caso    di    dichiarata
 incostituzionalita'   della  norma.    Di  qui  la  proiezione  della
 situazione processuale  sospettata  di  illegittimita'  sul  giudizio
 riguardante la validita' degli atti del chiamante.
   Il secondo (di contenuto esclusivamente pratico tuttavia.) consiste
 nel   fatto  che  il  decreto  di  fissazione  della  nuova  udienza,
 pronunciato dal g.i. ex art. 269, comma 2, c.p.c., sovrapponendosi al
 decreto precedentemente pronunciato  ex  art.  168-bis  ultimo  comma
 c.p.c.,  va  emesso tenendo conto delle medesime ragioni di razionale
 amministrazione del carico di lavoro alle  quali  e'  finalizzato  il
 secondo  (identici  sono  infatti  i  termini  fissati  per  la  loro
 emanazione). Di qui la  conseguenza  che  nell'emissione  del  primo,
 cosi'  come  nell'emissione  del decreto ex art. 168-bis ultimo comma
 c.p.c., il magistrato, per poter cadenzare i tempi del proprio lavoro
 in modo da assicurare il proficuo svolgimento  della  prima  udienza,
 dovra'  poter  anticipatamente  conoscere  i  termini  e  tempi della
 controversia,  tenendo  conto  del  contenuto  delle  questioni   che
 potranno  essere  sollevate  nell'udienza  da  differire, e del tempo
 occorrente per la loro esauriente trattazione; contenuto, e tempo che
 saranno naturalmente diversi nel caso in cui  nell'udienza  differita
 il chiamato sia o non sia ammesso a proporre domande riconvenzionali,
 stante il maggior tempo che nel primo caso si rendera' necessario sia
 a  lui  stesso  -  per  le  necessarie  verifiche  d'ufficio - sia al
 chiamante - soggetto all'onere  dell'immediato  esame  della  domanda
 proposta   nei  suoi  confronti  -  e  del  minor  tempo  a  entrambi
 occorrente, invece, ove  le  rispettive  attivita'  potessero  essere
 compiute  nei  venti  giorni  anteriori.  Diversi  quindi  i tempi di
 esaurimento  dell'udienza,  diverso  il  contenuto  del  decreto   di
 differimento  richiesto  al  giudice  per l'organizzazione del lavoro
 dell'ufficio,  rilevante,   di   conseguenza,   sul   contenuto   del
 provvedimento fin d'ora richiesto all'istruttore (anche in assenza di
 domande  riconvenzionali  gia' proposte dal chiamato) la questione di
 legittimita' costituzionale della  norma.  Trattasi  naturalmente  di
 rilevanza   esclusivamente  pratica,  inidonea  a  riflettersi  sulla
 decisione   oggetto    di    controversia,    sintomatica    tuttavia
 dell'attualita'  della questione e dei profili di rilevanza giuridica
 precedentemene esaminati.